E, a un certo punto, è arrivato il momento. Dopo
aver subito il massiccio bombardamento mediatico sulle grandi
imprese - himalayane e non solo - che negli ultimi anni
si è abbattuto su tutti gli appassionati di montagna,
ho deciso di cominciare anch’io. La curiosità
per le montagne degli altri continenti, unita a un rallentamento
degli impegni di lavoro, ha avuto il sopravvento su una
certa riluttanza ai lunghi viaggi.
La prima è stata, nel 1994, il McKinley
o meglio, col nome indiano, il Denali,
6194 m, la cima più alta del Nordamerica, in Alaska,
uno dei posti più freddi della Terra. Fallimento
totale, si torna a casa sconfitti dall’inesperienza
e, peggio, dalla presunzione di poter trattare il gigante
dell’Alaska come un qualsiasi quattromila delle nostre
parti. Grande lezione: quando vai a giocare fuori casa e
in condizioni mai sperimentate, vola basso e cerca di imitare
quelli del posto, che di solito conoscono il sistema migliore
per farcela!
Nel 1995 il Dhaulagiri, il Monte
Bianco del Nepal (8.165 m), con i francesi di Montagne
de la Terre. Grande esperienza e professionalità
del capospedizione Yves Detry, quasi tutto bene fino a quota
7500 (campo 3): Poco sopra quella quota, rinuncia per bufera
di vento. Bella lezione di himalaismo, esperienza utilissima
e indimenticabile, il primo approccio all’indescrivibile
fascino di quelle montagne e alla spiritualità magica
di quei popoli.
Nel ‘96 allo Shishapangma (“la
cresta sopra i pascoli”, Tibet, 8014 m), rinuncio
dopo un mese di maltempo continuo; naturalmente, il giorno
dopo il mio abbandono il tempo migliora e gli amici rimasti
lì vanno in cima senza grandi problemi.
L’anno dopo, un mesto ritorno dal Cho-Oyu
(8201 m) per bronchite.
Nel 1998, il 21 gennaio, raggiungo solo soletto la cima
dell’Aconcagua (6959 m) “el
techo de America”, la prima delle mie Seven Summits.
Al Pumori (Himalaya del Khumbu, 7130 m),
in ottobre dello stesso anno, rinuncio a poca distanza dalla
cima per rischio slavine.
Nel ’99 vado all’Everest con
la spedizione di un grande himalaista, Silvio Mondinelli
(Gnaro), dal versante settentrionale, tibetano. Ci arrendiamo
tutti dopo quaranta giorni di maltempo quasi continuo.
Nel mese di dicembre, insieme a Michele Comi, salgo prima
il Monte Kenia (5199 m) e poi il Kilimanjaro
(5895 m), la cima più alta dell’Africa, la
seconda delle mie Seven Summits.
Dopo un paio di trekking himalayani, utili a risvegliare
il desiderio di andare in spedizione, torno all’Everest
nel 2001, questa volta da sud, ancora con una spedizione
capeggiata da Mondinelli. Grande delusione: mi arrendo a
quota 8300, per un malessere forse causato da un malfunzionamento
dell’erogatore di ossigeno.
Torno all’Everest nel 2002, sempre
da sud, questa volta con una spedizione autoorganizzata
e autogestita di cui sono il responsabile. Siamo in tre,
io, il grande sciatore alpinista e skyrunner Adriano Greco
e Pemba Doma, una sherpani. Fila tutto liscio, arrivo in
cima il 25 maggio alle 11.20. Il sogno è diventato
realtà! Unico rammarico, la rinuncia di Adriano a
7350 m (Campo 3) per problemi fisici.
Arrivato a questo punto le Seven Summits diventano il mio obiettivo: una
dopo l'altra (vedi la pagina dedicata) raggiungo le vette del Vinson Massif,
del Kosciuszko,
dell'Elbrus e del Denali; sulla cima di quest'ultimo, il 22 giugno 2003,
provo la grande gioia di essere il primo italiano non professionista della
montagna a concludere
l'avventura .
Completate le Seven Summits, decido di continuare con le spedizioni himalayane: credo si tratti di qualcosa di simile al mal d’Africa; quelle valli, quella gente, quelle montagne ti prendono il cuore, esercitano su di te uno straordinario richiamo …
Così nella primavera del 2004 parto nuovamente per il Cho Oyu. Va malissimo: a Kathmandu, in una serata buia e in una strada buia cado dentro una buca non segnalata e mi lusso una spalla. Pazienza, la montagna rimane lì ad aspettarmi.
Cerco di rifarmi nell’estate, aggregandomi alla spedizione dell’Adiq al Broad Peak, Karakorum Pakistan, 8047 m, proprio di fronte al K2 sul quale era in corso la grande spedizione italiana del cinquantenario. Tutto il mese di luglio speso in tentativi frustrati dal tempo instabile: quando siamo costretti al rientro il tempo migliora e dopo alcuni giorni K2 e Broad Peak si arrendono agli assalti di parecchie spedizioni.
Sempre nel 2004, in autunno, riesco a convincere Paolo Masa a mettere il naso in Himalaya: andiamo all’Ama Dablam (6856 m), da molti definito la montagna più bella del Nepal per la sua forma slanciata che ricorda il Cervino. Arrivo in cima il 21 ottobre, purtroppo senza la compagnia di Paolo che proprio non è riuscito ad adattarsi all’altitudine.
Dopo un 2005 sabbatico, trascorso sulle montagne di casa ad arrampicare su roccia e a pestar neve, torno in Nepal nell’autunno 2006, per il Baruntse, 7129 m, una bella montagna situata tra Ama Dablam, Makalu e Lhotse. Arriviamo solo al campo base, peraltro dopo un bellissimo avvicinamento che si svolge in valli poco frequentate e ancora selvagge; la troppa neve caduta in stagione consiglia noi e le altre spedizioni presenti a lasciar perdere…
Nel 2007 organizzo una spedizione al Cho Oyu, 8201 m: partecipano un gruppo di amici valtellinesi e vi si aggregano anche Silvio Mondinelli, in arte Gnaro, e Marco Confortola. I due professionisti vanno in cima nei primi giorni di maggio, io li imito il giorno 14: è una grande soddisfazione, nel mio sessantaduesimo anno di vita…
Il 2008 vede un tentativo al Dhaulagiri, 8165 m, in una disgraziatissima spedizione organizzata sotto gli auspici di “Avventure nel Mondo” a cui mi aggrego per mancanza di alternative: la miseranda gestione e la pessima leadership (di tal Giuseppe Pompili) si aggiungono a condizioni meteo negative. Si rinuncia dopo essere saliti fino a circa 7000, con la ferma intenzione di tenersi nel futuro alla larga dall’agenzia suddetta e dai suoi adepti.
Nella primavera 2009 parto per il Manaslu, 8153m, splendida montagna che completa la triade degli ottomila del Nepal centrale insieme a Dhaulagiri e Annapurna. Siamo in dieci, il capospedizione è Mario Merelli. Dopo un mese di aprile segnato da nevicate senza precedenti, riusciamo a raggiungere campo 3, a circa 7000 m. Qui purtroppo succede ciò che non mi era mai capitato: durante il tentativo – fallito da tutto il gruppo – di salita alla cima, muore uno di noi, Giuseppe Antonelli di Trento, 38 anni e un paio di 8000 all’attivo. Gli è stato fatale un edema polmonare, la malattia delle altissime quote che sull’Himalaya è sempre in agguato. Era un ragazzo buono e simpatico. Torniamo a casa tutti tranne Mario Panzeri, che una ventina di giorni dopo riuscirà a trovare una finestra di bel tempo e a raggiungere la cima.